Archive for Giugno 2016

LE STATINE POSSONO PEGGIORARE LA FUNZIONE CARDIACA

Un nuovo studio ha trovato che le statine sono associate ad una diminuzione della funzione del miocardio (muscolo cardiaco).

Da tempo è noto che l’uso delle statine è associato a miopatia, debolezza muscolare e rabdomiolisi, una distruzione delle fibre muscolari con conseguente rilascio del contenuto di fibre muscolari nel flusso sanguigno.
In questo studio, la funzione miocardica è stata valutata in 28 pazienti.
“La funzione era significativamente migliore nel gruppo di controllo rispetto al gruppo delle statine “.

by Massimo Pandiani

Fonti:
Green Med Info
Clinical Cardiology Dicembre 2009; 32(12):684-9
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20027659
http://www.greenmedinfo.com/toxic-article/statin-therapy-decreases-myocardial-heart-function

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INTERVISTA A RENATO DE MAGISTRIS

Prof. Renato De Magistris

Intervista a Renato De Magistris, docente di Chirurgia Generale alla 1° Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Seconda Università degli Studi di Napoli (SUN), responsabile dell’ambulatorio per la prevenzione e cura delle malattie cronico – degenerative di interesse medico-chirurgico presso la Seconda Università degli Studi di Napoli

L’uso corrente del termine “Medicina integrativa” (National Center for Complementary Medicine dei National Institutes of Health di Washington) indica di solito l’integrazione concettuale, sperimentale e clinica tra bio-medicina convenzionale e quegli interventi delle medicine complementari che offrono riscontri positivi alla prova dell’evidenza.

Se all’evidenza fa seguito una sperimentazione clinica favorevole, il rimedio in questione viene inglobato nella medicina corrente.
Nella medicina di qualità, invece, esiste da sempre l’abitudine di avvalersi tempestivamente dei risultati delle ricerche scientifiche più recenti integrandole nella pratica con la propria esperienza clinica.

Questa caratteristica positiva della buona medicina è ormai in via di estinzione a causa delle limitazioni burocratiche crescenti alla libertà del medico sempre più soggetto ad adeguarsi a protocolli standard ed ai vincoli di sistemi sanitari nazionali sempre più conservatori rispetto al nuovo.

Tutto ciò è reso ancor più anacronistico a seguito delle recenti scoperte della biologia molecolare, della genetica, dell’epigenetica, dell’epidemiologia, che stanno portando ad un radicale orientamento nelle conoscenze sull’eziopatogenesi, sulla prevenzione e sulla terapia.

La resistenza con cui il mondo medico tende a recepire ed applicare queste novità sono in parte legate alla lentezza dell’industria tecnologico-farmaceutica e medica nell’incardinare i loro interessi nelle nuove tendenze in parte all’irrazionalità dei budget della sanità pubblica nella quale, per esempio, da una parte è solidificato il dispendio onerosissimo a corto termine per le chemioterapie, dall’altra si lesina sulle piccole spese legate alle attività preventive i cui benefici sulla salute e sulla spesa si riscontrano a medio e lungo termine.

Sui mutamenti in corso nella pratica medica e sulle innovazioni di cui si è fatto attivo promotore, abbiamo intervistato Renato De Magistris, docente di Chirurgia Generale alla 1° Clinica Chirurgica della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Seconda Università degli Studi di Napoli (SUN), e responsabile dell’ambulatorio per la prevenzione e cura delle malattie cronico – degenerative di interesse medico-chirurgico, presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria presso la Seconda Università degli Studi di Napoli.

Cosa s’intende per patologie cronico – degenerative?
Sono malattie che non riconoscono come causa un agente infettivo, ma la mancata risoluzione di uno stato infiammatorio dell’apparato gastroenterico con ripercussione, a distanza di tempo, su organi ed apparati. Ciò anche per un consumo di cibo non conforme ai principi dell’alimentazione umana. La patologia diventa cronica con una evoluzione lenta, che rifletterà le variabili cliniche dell’infiammazione, fino alla possibile trasformazione della cellula in cancro.

Anche se l’eziopatogenesi ha dei meccanismi comuni a tutte, sotto la dizione di malattie cronico – degenerative si raggruppa una grande varietà di manifestazioni patologiche?
Sono numerose e molte di esse vengono definite malattie autoimmuni, malattie ad eziologia sconosciuta e possono arrivare a coinvolgere tutti gli organi e gli apparati. Ne cito solo alcune: la cronica irregolarità dell’alvo, in senso di stipsi o diarrea; l’infiammazione cronica dell’ intestino e dello stomaco, che, a volte, evolve verso forme di gastrite atrofica, morbo di Crohn e colite ulcerosa; disturbi del comportamento quali ansia, depressione e attacchi di panico; ancora, l’emicrania; la sclerosi multipla; la sclerosi laterale amiotrofica; la sclerodermia; la fibromialgia; l’artrite reumatoide; la poliposi, fino alla comparsa della malattia neoplastica. Tali patologie, nonostante il trattamento farmacologico, persistono nella loro manifestazioni cliniche diventando, quindi, croniche e a volte irreversibili.

Lei pone una particolare attenzione sull’apparato gastroenterico in relazione alla comparsa di patologie di altri apparati come l’alvo irregolare, l’obesità, l’infarto del cuore e le stesse neoplasie.
L’apparato gastro-enterico rappresenta il vero motore della macchina umana. E’ convinzione generale che lo stomaco serve esclusivamente per digerire mentre l’intestino è deputato ad assimilare ed eliminare le scorie del cibo e delle cellule. In realtà queste funzioni non sono le sole che vengono svolte da questi organi; ve ne sono altre altrettanto importanti e vitali svolte dai neurormoni che regolano le funzioni di organi e di apparati.

Lei enfatizza che sia l’intestino sia lo stomaco, oltre alla loro funzione digestiva e di emuntorio, svolgono una funzione metabolica.
L’intestino produce numerosissime sostanze: sono conosciute con il nome di secretina, bombesina, gip, vip, somatostatina, enteroglucagone, serotonina. Controllano numerose funzioni: la motilità dell’apparato gastroenterico, il metabolismo dell’acqua, la secrezione pancreatica, la motilità della colecisti, ecc. solo per citarne alcune.
Lo stomaco oltre agli enzimi che servono per digerire, secerne: la gastrina, la grelina, il fattore intrinseco di Castle. Le funzioni sono molteplici, ma ricordo solo le più importanti. La gastrina stimola il pancreas a secernere insulina e la tiroide a secernere calcitonina, un importante ormone la cui funzione è quella di fissare il calcio nelle ossa; la grelina regola il senso della fame ed il peso corporeo; una glicoproteina, conosciuta come il fattore intrinseco di Castle, è indispensabile per l’assorbimento della vitamina B12. Quando queste funzioni vengono meno si può verificare la comparsa di patologie come il diabete, l’osteoporosi, l’obesità, l’infarto e perfino il tumore.

Sta sottolineando la necessità di valutare, mantenere e ripristinare l’integrità della funzionalità biochimica dello stomaco e dell’intestino e dell’intero organismo?
Il nostro organismo è un vero e proprio laboratorio biochimico. Le reazioni che avvengono dipendono dalla presenza di particolari sistemi biologici, detti enzimi. Questi complessi funzionano per la presenza di vitamine e minerali. La vitamina B12, ripeto, può essere utilizzata dall’organismo per la presenza del fattore intrinseco di Castle, e funziona per il tramite di un minerale, il cobalto. Vitamina B12 e cobalto fanno parte di un complesso enzimatico – la metioninasintetasi – da cui dipende la formazione:

1 – dei principali neurotrasmettitori, acetilcolina e noradrenalina, che modulano la funzione del sistema simpatico – parasimpatico, cioè di quel sistema nervoso che noi non possiamo controllare e da cui dipende il movimento
2 – dei fattori che agiscono sulla parete dei vasi regolandone il tono;
3 – della fosfatidilcolina, che è un particolare costituente del rivestimento dei nervi dei quali regola la sensibilità;
4 – degli acidi costituenti del DNA e, quindi, regolatori della moltiplicazione delle cellule.

Quali sono gli effetti di una ridotta produzione del fattore intrinseco di Castle o di una carente quantità in circolo di vitamina B12?
Il primo disturbo che si presenterà, nella maggioranza dei casi, sarà l’irregolarità dell’alvo: in senso stitico o diarroico; comparsa di dolori, alterazione della moltiplicazione delle cellule che si evidenzierà attraverso la formazione di polipi, e negli stadi più avanzati di neoplasie.

Su quali ricerche si fondano e si riferiscono queste osservazioni?
L’evidenza scientifica è vasta ed autorevole. Le più recenti ricerche condotte da Simonetta Friso dell’Università di Verona, gli studi epidemiologici di Edward Giovannucci, della Harvard Medical School e di Bruce Ames, del Bruce Genomic center di Oakland in California, uno dei massimi esperti in campo nutrizionale, hanno confermato il ruolo antineoplastico della vitamina B12 e dell’acido folico: meno B12, meno folati più tumori. Il lavoro di Young-In Kim dell’Università di Toronto ha dimostrato come anche la carenza di acido folico, vitamina fondamentale per l’attivazione del ciclo dei folati e di vitamina B12, è responsabile della comparsa di patologie quali la malattia di Alzheimer, l’ aterosclerosi, l’ictus, l’osteoporosi, la depressione e la demenza. Il lavoro di Weinstein SJ. pubblicato sul J. National Cancer Institut, nel marzo 2005 la più autorevole rivista della ricerca sul cancro, riporta il ruolo anticancro della vitamina E sulla prostata.

Le vitamine sono fattori regolatori di specifici processi metabolici?
Sono dati reali e sono i risultati degli studi di biochimica umana e delle ricerche di biologia molecolare.

Perché l’applicazione clinica dei nutrienti non è generalizzata?
E’ vero che molti medici non ritengono terapeutica la somministrazione di nutrienti, ma la ricerca scientifica esiste e conferma, al contrario, l’efficacia del loro impiego. Ritengo che i motivi di tale scetticismo siano da addurre principalmente ad uno scarso aggiornamento della classe medica, orientata unicamente verso terapie xenofarmacologiche e non biofarmacologiche.

Quali sono le ricerche di riferimento che confermano l’utilità dei nutrienti nell’applicazione clinica?
Oltre a quelle da me già citate, ci sono i risultati ottenuti dagli studi sulla vitamina B6 di Otani T. e di Iwasaki M. pubblicati nel giugno del 2007 sul the journal of Nutrition. Essa risulta coinvolta nella sintesi del DNA, cioè nella formazione dei “mattoni” che formano la molecola del DNA: un abuso di fumo e/o di alcool compromette tale sintesi, con formazione a distanza di tempo addirittura di neoplasie del retto. Notevole, inoltre, la comunicazione di un’ importante ricerca del prof. Veronesi sulla vitamina A nella prevenzione dei tumori della mammella.
Altra ricerca fondamentale – anno 2003 – è stata firmata dal prof. Zappia, docente di biochimica della Università ove lavoro, la Seconda Università degli Studi di Napoli, ed ha riguardato il rapporto esistente tra omocisteina ed espressione dei geni. Secondo tale ricerca, l’aumento dell’omocisteina, un aminoacido prodotto dal nostro organismo, influenzerebbe negativamente l’espressione dei geni, mentre la somministrazione di acido folico correggerebbe tale alterazione. E’ uno studio che ritengo importantissimo soprattutto ai fini della prevenzione delle malattie, sia di interesse medico sia chirurgico. Purtroppo, non trova ancora applicazione nella pratica clinica in quanto – e di ciò in realtà mi sfuggono i motivi – ancora oggi l’omocisteina non viene dosata, alla pari dell’acido folico e della vitamina A, per le correzioni terapeutiche da adottare.

Lei mette in luce un ritardo tra i risultati della ricerca scientifica e la loro applicazione clinica o scarsa correlazione o addirittura una dissociazione tra i due campi?
Purtroppo tale dissociazione esiste ed è confermata dall’aumento statistico delle malattie cronico- degenerative.

La correlazione tra alimentazione e cancro è comunque verificata ed accettata.
Il 1982 fu proclamato l’anno dell’Europa contro il cancro e fu emanato un decalogo che suggeriva di aumentare il consumo dei cereali e ridurre quella della carne e derivati. Questi suggerimenti hanno trovato la loro conferma scientifica, in seguito agli studi di biologia molecolare.
Nell’anno 2002 per gli studi condotti sull’oncogenesi e, in particolare, sull’apoptosi, è stato conferito agli scienziati Robert Horvitz, John Sulston e Sidney Brenner, il premio Nobel per la medicina. In sintesi, questi ricercatori hanno dimostrato che la crescita delle cellule avviene in maniera programmata e dipende dall’equilibrio tra morte e nascita cellulare. Le cellule che continuano a vivere al di là della loro programmazione sono più sensibili ed esposte a danni nucleari e, quindi, più facilmente soggette a mutazione. Numerosi sono i fattori che intervengono in questo equilibrio, soprattutto i nutrienti, quali vitamine, minerali e acidi grassi ed in particolare i recettori nucleari, sistemi biologici che filtrano gli stimoli che provengono dai nutrienti e che devono arrivare al DNA. La loro funzione è paragonabile a quella delle antenne radio: captare il segnale per poi trasmetterlo. A seconda della loro stimolazione inducono o l’apoptosi (morte programmata della cellula) o la nascita di nuove cellule.

Qual è il ruolo e qual è la funzione dei cereali e delle proteine in questo meccanismo?
I cereali stimolano i recettori conosciuti come PPARgamma che modulano l’apoptosi, mentre le proteine stimolano i recettori PPARalfa e beta che invece modulano la nascita delle cellule. Questo equilibrio avviene per un consumo di cereali nella proporzione del 60%-70%, ed un consumo di proteine del 10%-15%. Quando il consumo del cibo non avviene in termini proporzionali ma a vantaggio delle proteine, si hanno a livello intestinale fenomeni di putrefazione con notevole danno sia della mucosa sia della flora batterica intestinale. Tale consumo eccessivo nel tempo comporterebbe una iperstimolazione di quei recettori che stimolano la crescita cellulare a svantaggio della apoptosi. Si generano, in tal modo, cellule deboli e sensibili a sollecitazioni da parte di molecole altamente energetiche quali i radicali liberi. La produzione di questi ultimi può avvenire per concomitante aumento dell’omocisteina o riduzione di vitamina A, acidi grassi o vitamina E che insieme regolano l’espressione dei geni.

Quali sono le indicazioni per la prevenzione?
La prevenzione si distingue in primaria e secondaria. La secondaria è quella che viene eseguita mediante pap test per lesioni della sfera genitale femminile, oppure la ricerca del sangue occulto nelle feci per lesioni dell’apparto intestinale o mammografia per eventuali tumori alla mammella, e così via. La prevenzione primaria, invece, deve avvenire mediante il dosaggio nel sangue di vitamine, minerali e omocisteina, che intervengono nella crescita delle cellule e l’indagine delle citochine infiammatorie per valutare l’entità dell’infiammazione presente in quell’organismo.

Con quali presidi bisognerebbe intervenire quando compaiono i primi segni della malattia cronico- degenerativa?
È semplice: correggere i consumi alimentari e lo stile di vita, responsabili dell’insorgenza della patologia, procedere al resettaggio dell’intestino mediante pulizia intestinale che potrà avvenire per via orale o suborale, fare seguire all’igiene intestinale la somministrazione di probiotici e prebiotici, correggere gli elementi riscontrati alterati mediante semplici indagini di laboratorio, previste anche dal Sistema Sanitario Nazionale e neutralizzare l’infiammazione con un trattamento biofarmacologico.

Quale sarebbe questo trattamento?
La somministrazione di opoterapici. Si tratta di farmaci la cui funzione è quella di aiutare l’organismo a produrre sostanze che possono riequilibrare le cause responsabili dell’insorgenza dell’infiammazione.

L’opoterapia è omeopatia?
A differenza dell’approccio omeopatico che si basa sul concetto similia similibus curantur, la proprietà farmacologica degli opoterapici è quella di stimolare, mediante meccanismi fisiologici, la produzione di sostanze antinfiammatorie da parte dell’organismo, per neutralizzare lo stato flogistico in atto, evitando la progressione dell’infiammazione verso il cancro.

Esistono ricerche in merito che confermano l’esistenza del rapporto tra infiammazione e cancro?
Nell’anno 2002 Lisa M. Coussens e Zena Werb del Cancer Research Institute, pubblicarono su Nature in importantissima ricerca che mise in risalto come le sostanze che sostengono l’infiammazione agiscano negativamente sull’equilibrio tra morte e nascita delle cellule, con formazione di cellule sensibili ad agenti mutageni e, quindi, comparsa di tumore

E’ ormai consolidata la correlazione tra infiammazione dell’intestino e disturbi del comportamento, quali ricerche confermano e rafforzano questa rapporto?
Un’ importante ricerca epidemiologica, condotta da Dotewall nel 1982 e pubblicata su Scand. J. Gastroenterology, mise in risalto che i sintomi ansiosi aprono il corteo sintomatologico della sindrome dell’intestino irritabile in una percentuale dei casi maggiore (98%) rispetto all’ irregolarità dell’alvo (97%).
Per comprendere tale relazione è necessario richiamare alcuni insegnamenti della fisiologia. L’intestino è un vero e proprio organo che secerne sostanze conosciute come neurormoni. La serotonina fa parte di questa famiglia ed è coinvolta nella regolazione del sonno, nei meccanismi del dolore e delle sfere motoria, alimentare, sessuale e comportamentale. Gli studi di epidemiologia confermano che il 53% degli italiani soffre di disturbi psichici e si prevede che entro il 2020 questo tipo di patologia subirà un ulteriore incremento di circa il 50%.
A mio avviso da tale statistica, se letta in un’ottica più ampia, emerge con chiarezza un dato significativo: il trattamento dei disturbi psichici con psicofarmaci, quale è quello allo stato di gran lunga maggiormente praticato, da un lato, è in grado di intervenire soltanto in un momento successivo al loro evidente manifestarsi, e dall’altro comunque non agisce sulla causa biologica dell’insorgenza del disturbo, non riuscendo così ad eliminarlo definitivamente ed operando piuttosto soltanto su alcune sue specifiche espressioni.
Ritengo, invece, che un più efficace approccio clinico dovrebbe seguire proprio la logica indicata dalla fisiologia umana dando più importanza alla serotonina e alle cause che generano il suo malfunzionamento vale a dire in primo luogo all’infiammazione dell’intestino.
Certamente se la somministrazione di psicofarmaci così come l’impiego di farmaci per altre patologie fosse risolutiva, non registreremmo l’aumento delle patologie cronico degenerative. Se l’avvento degli antibiotici ha comportato un grosso passo avanti nel campo delle malattie infettive, non è possibile confermare identici risultati per l’impiego di farmaci in altri settori della medicina. Basti evidenziare che a fronte dell’aumento statistico delle patologie cronico degenerative, si registra una spesa sanitaria enorme a causa del largo consumo di farmaci. Così i dati epidemiologici della sclerosi multipla: tre milioni nel mondo soffrono di sclerosi multipla, cinquantamila gli italiani portatori di tale malattia, milleottocento i nuovi casi ogni anno in Italia, nonostante i continui finanziamenti per la ricerca e gli elevati costi per il suo trattamento.

Quali indicazioni ne deriva per la pratica medica?
Ritengo indispensabile innanzitutto dosare la serotonina nelle urine delle 24 ore. Nel caso di carenza, il medico dovrebbe di conseguenza provvedere alla sua integrazione e nel contempo intervenire sulla sofferenza dell’apparato gastroenterico. Lo strumento più efficace per debellare le malattie è la loro prevenzione attraverso una gestione adeguata del bene “salute”.
La comparsa dell’infiammazione dell’apparato gastroenterico è un evento quasi parafisiologico, così come un abbassamento del livello della serotonina, o una diminuzione/aumento di una o più vitamine. Il medico, studiando le cause della comparsa di quella patologia, deve essere in grado di consigliare prontamente il rimedio più idoneo ad eliminarne la causa stessa, evitando così che la malattia diventi persistente ed il suo decorso irreversibile.

Quali sono le metodiche terapeutiche?
Principalmente attraverso una modifica dello stile di vita, un trattamento di bonifica dell’apparato gastroenterico, mediante pulizia dell’intestino e somministrazione di prebiotici e probiotici.

Patologie complesse possono essere ricondotte, attraverso interventi così semplici, alla fisiologia?
Anche in questo caso bisogna capirsi. Se sul nascere di una patologia si comprendono le cause e si interviene tempestivamente, il presidio elementare diventa il più efficiente. Se invece non si comprendono le cause iniziali e si va per tentativi terapeutici con l’impiego di xenofarmaci che, come è noto, comportano, a lungo andare, danni alla struttura organica, il rimedio elementare incontrerà il suo limite: i risultati, per quanto rilevanti, si manifesteranno più lentamente stante l’avanzato stadio della degenerazione e risulteranno ulteriormente ostacolati nel loro prodursi dallo scarso interesse del paziente nell’applicare il protocollo di terapia, in particolare nella modifica dello stile di vita, risultando per lo stesso tanto meno stimolante la lentezza del miglioramento dello stato patologico quanto più acuta è la sofferenza vissuta.

Che cosa auspica per il sistema sanitario futuro?
Mi auguro che coloro i quali gestiscono la medicina in Italia prendano atto dei risultati che la ricerca ha raggiunto per aver chiarito tanti punti finora oscuri e che tali risultati trovino presto la loro applicazione in campo clinico; che i pazienti vengano costantemente informati sui principi dell’alimentazione umana; tale conoscenza eviterà di demonizzare l’alimento e aiuterà ad applicare un consumo cosciente di cibo con riflessi positivi sul gusto e sull’appetito e senza riflessi negativi sullo stato di salute;che la pulizia dell’intestino venga considerata uno strumento fondamentale per una ripresa della sua funzionalità; che la somministrazione dei probiotici e prebiotici arrivi ad essere considerata una pratica costante.
Soprattutto, auspico che l’indagine sui valori degli elementi nutrizionali, delle vitamine e dei minerali, vera fonte di salute, diventi prassi da attuare prima di procedere a terapia, biofarmacologica o xenofarmacologica.
In sintesi, mi auguro che finalmente venga applicata una medicina a misura d’uomo.

INTERVISTA A CURA DI RAFFAELE CASCONE
PUBBLICAZIONE SU QUADERNI RADICALI

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ALLARME FDA: RISCHIO DIABETE CON LE STATINE

Rischio diabete con i farmaci anticolesterolo. L’allarme è stato lanciato in Usa dalla Food and Drug Administration (FDA) e riguarda quella classe di farmaci anticolesterolo chiamati ‘statine’.

L’ente americano che si occupa della sicurezza alimentare e medica ha messo in guardia i pazienti che assumono regolarmente statine sui rischi di un aumento del livello di zuccheri nel sangue, quindi del diabete.
L’Fda intende aggiungere ‘rischio diabete’ sotto la voce ‘Attenzione e precauzioni’ delle etichette delle statine, tra queste ci sono farmaci popolari come Lipitor, Lescol, Zocor e Mevacor, che da anni vengono assunti da decine di milioni di persone per prevenire gli infarti, ischemie e disturbi cardiovascolari. Inoltre, sempre secondo l’Fda le etichette delle statine devono contenere informazioni riguardanti pazienti che hanno sperimentato perdita di memoria e stato confusionale.

La misura precauzionale da parte dell’Fda è conseguente ai risultati di una ricerca pubblicata nel 2010 dalla rivista medica ‘The Lancet’, che prendeva in considerazione un campione di oltre 90mila pazienti. Secondo i ricercatori la terapia con statine e’ associata ad un leggero incremento del rischio di sviluppare il diabete. Tuttavia il rischio è basso sia in termini assoluti sia se paragonato alla riduzione di casi coronarici. Nessun commento per ora da parte della casa farmaceutiche.

01/03/2012

Fonte: http://www.sanitanews.it/quotidiano/
intarticolo.php?id=5916&sendid=756

 

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INGANNO sui FARMACI

Un articolo/denuncia del professor Silvio Garattini.
Come l’industria farmaceutica in taluni casi “tarocca” spudoratamente i risultati della ricerca in campo medico con il solo scopo di incrementare le prescrizioni di farmaci e far lievitare i loro profitti.
Una pratica gravissima in quanto favorisce l’abuso di farmaci, come poi avviene nella realtà, con potenziali (e spesso reali) effetti molto dannosi per la salute.

***

Article reference:
http://www.laleva.org/it/2010/10/
cosi_ci_ingannano_sui_farmaci_-_lespresso.html

Così ci ingannano sui farmaci…. di Silvio Garattini Garattini Silvio
Fonte: L’espresso

Uno studio rivela come le aziende farmaceutiche riscrivano gli articoli scientifici per gonfiare le virtù di una medicina o nasconderne i danni collaterali. Ed è sulla base di questi “falsi” che spesso vengono fatte le ricette  (26 ottobre 2010)

Gli articoli scientifici che riportano studi clinici controllati riguardanti nuovi farmaci rappresentano la base per redigere articoli più divulgativi che influenzano le prescrizioni da parte dei medici che raramente leggono gli articoli originali. Le industrie colgono questa opportunità per rendere gli articoli il più possibile favorevoli al nuovo farmaco, facendoli revisionare – o addirittura scrivere completamente – da esperti che rimangono anonimi, sono i cosiddetti “scrittori fantasma”. Molto spesso non si tratta di modificare i risultati, ma di presentarli in modo attraente, enfatizzando piccoli risultati e minimizzando l’eventuale presenza di effetti tossici. Particolare attenzione viene riservata al riassunto del lavoro, perché in generale questo non è oggetto di molto interesse da parte dei valutatori, mentre rappresenta la parte dell’articolo che più frequentemente è letta e determina l’impressione finale da parte del lettore.
Questo modo di operare è evidentemente non-etico e non riguarda solo le industrie interessate, ma anche i ricercatori clinici che accettano di firmare lavori scientifici scritti da altri. Uno studio pubblicato su “Plos Medicine” analizza i documenti messi a disposizione da parte della Giustizia Federale degli Stati Uniti che riguardano in particolare parecchi articoli scritti per commentare gli effetti favorevoli della terapia ormonale in menopausa da parte di una ditta specializzata nella stesura di articoli scientifici a pagamento. I ghost writer cercavano di mitigare il rischio di tumore della mammella dovuto all’uso della terapia ormonale magnificando benefici cardiovascolari e prevenzione della demenza, della malattia di Parkinson (e persino delle rughe, senza ovviamente alcuna base scientifica).

Tutto ciò non può che nuocere all’appropriatezza delle terapie, ma serve invece a gonfiare le prescrizioni e i profitti. È importante che i medici siano critici nella lettura della documentazione che ricevono, controllando i dati se possibile sui lavori originali. Occorre anche che il Servizio Sanitario Nazionale dissemini informazioni oggettive per ridurre la sproporzione oggi esistente fra messaggi dell’industria farmaceutica e informazione indipendente.

Silvio Garattini, direttore Istituto Mario Negri di Milano

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PARACETAMOLO

LA FDA AVVERTE SUI POSSIBILI DANNI DA ECCESSO DI PARACETAMOLO

Risale al 13 gennaio l’avviso che la Food and Drug Administration (FDA) ha emesso sui possibili danni epatici generati da dosi troppo alte di paracetamolo, farmaco da noi conosciuto comunemente come Tachipirina, Efferalgan, ecc., chiedendo una limitazione del medicinale a 325 mg per compressa.

“In Italia – afferma Primo Mastrantoni dell’Aduc, Associazione per i Diritti degli Utenti e Consumatori – esistono confezioni da 125 a 1000 mg di paracetamolo e il farmaco non e’ soggetto a prescrizione medica, il che può indurre il paziente a considerarlo ‘innocuo’ nonostante le indicazioni contenute nei foglietti illustrativi sui possibili danni epatici, renali, del sangue nonché delle reazioni allergiche che può scatenare. Il paracetamolo e’ un antifebbrile, antinfiammatorio e analgesico. La diffusione dei farmaci da banco, per i quali non e’ necessaria la prescrizione medica, può indurre a sottovalutare gli effetti collaterali che qualsiasi farmaco può produrre. Per questo abbiamo sollecitato il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, affinché valuti le indicazioni e le proposte emerse dal rapporto della FDA”.

Il Ministro ha poi reso noto che la problematica è stata inserita per la valutazione nell’ordine del giorno della prossima riunione della Commissione Tecnico Scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco programmata per i giorni 2 e 3 febbraio.

Fonte: Sanità news 27/01/2011

Per approfondimenti
http://www.fda.gov/Drugs/DrugSafety/ucm239821.htm
http://www.informasalus.it/it/articoli/ridurre-danni-tachipirina.php

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ANTIDOLORIFICI

ALCUNI ANTIDOLORIFICI POSSONO FARE AUMENTARE I RISCHI CARDIACI

Antidolorifici comunemente utilizzati per il trattamento dell’artrite possono incrementare i rischi per il cuore, sia infarti che ictus. Lo afferma uno studio dell’Università di Berna, in Svizzera, pubblicato sul British Medical Journal, una delle più ampie ricerche fin qui condotte sui possibili effetti collaterali di farmaci molto diffusi come ibrupofene, diclofenac, naprossene e altri cosiddetti fans, farmaci antinfiammatori non steroidei, e Cox-2, inibitori selettivi della ciclo-ossigenasi. Sotto la lente anche il Vioxx, nome commerciale del rofecoxib, ritirato dal mercato nel 2004 per i rischi per la salute.

Lo studio, che ha analizzato 31 precedenti ricerche sull’argomento, riguarda 116.000 pazienti che hanno assunto antidolorifici regolarmente soprattutto per la cura dell’artrite. Il risultato è che rofecoxib e lumiracoxib sono stati associati con un raddoppio del rischio di infarto, etoricoxib e diclofenac con un rischio quattro volte maggiore di infarto, mentre l’ibruprofene è associato a un rischio tre volte superiore di ictus. Meno pericoloso, secondo l’indagine del Bmj, il naprossene, le cui interazioni a livelli cardiovascolari si sono rivelate più modeste.

“In conclusione, le opzioni per il trattamento del dolore cronico muscoloscheletrico sono limitate – afferma uno degli autori dello studio, Peter Juni – e pazienti e medici devono essere consapevoli che il rischio cardiovascolare per il trattamento deve essere tenuto in considerazione al momento della prescrizione”. Il rapporto tra benefici e rischi dei fans e dei cosiddetti farmaci Cox-2, inibitori selettivi della ciclo-ossigenasi, deve essere valutato attentamente per i trattamenti di lungo-periodo.

Per approfondimenti
http://www.bmj.com/content/342/bmj.c7086.full
Fonte: Sanità news 27/01/2011

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BASSI LIVELLI DI COLESTEROLO LDL e RISCHIO CANCRO

UNA META-ANALISI INDICA CHE BASSI LIVELLI DI COLESTEROLO LDL POSSONO ESSERE ASSOCIATI AD UN RISCHIO MAGGIORE DI CANCRO.
(Alessandro Oteri, Dipartimento Clinico e Sperimentale di Medicina e Farmacologia dell’Università di Messina)

La riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo rappresenta la principale strategia per ridurre il rischio cardiovascolare. Tra gli agenti ipocolesterolemizzanti attualmente disponibili, le statine rappresentano senza dubbio i farmaci più utili la cui efficacia è ormai supportata da numerose evidenze scientifiche. Dati recenti, provenienti da trial clinici di ampie dimensioni, hanno dimostrato che un intenso abbassamento dei livelli plasmatici di colesterolo offre una più efficace riduzione del rischio cardiovascolare (1-3). Tuttavia, in una recente meta-analisi condotta da Alsheikh e coll, è stato osservato che i pazienti con bassi livelli plasmatici di LDL, ottenuti mediante la somministrazione di statine, presentano un rischio significativamente maggiore di ricevere una diagnosi di cancro rispetto a quelli con elevate concentrazioni di colesterolo (4). Riportiamo di seguito una breve sintesi dello studio ed alcuni commenti inviati all’editore.

Lo studio
L’indagine è stata condotta attraverso una ricerca effettuata su MEDLINE nell’ambito della quale sono stati identificati tutti gli RCT prospettici sulle statine pubblicati fino al mese di novembre del 2005.
Il principale obiettivo dello studio è stato quello di valutare la relazione esistente tra riduzione dei livelli di colesterolo ed innalzamento dei livelli plasmatici di enzimi epatici e rabdomiolisi. In modo simile è stata valutata la relazione esistente tra riduzione dei livelli di colesterolo e nuove diagnosi di cancro nei gruppi di trattamento con le statine. L’incidenza di tali eventi è stata valutata in funzione della dose, suddividendo le statine in tre categorie di dosaggi: bassi, medi ed elevati.
Le variabili considerate sono state: statina utilizzata, dose, numero di pazienti inseriti nel gruppo di esposizione alle statine, durata del follow-up, livelli di colesterolo (iniziali e durante il trattamento) e numero di pazienti che hanno manifestato aumento degli enzimi epatici, rabdomiolisi o cancro. Per ciascuno di questi effetti sono state calcolate le incidenze per 100.000 persone/anno.

Risultati
Nella meta-analisi sono stati inclusi 23 trial clinici pubblicati sulle statine, utilizzate a vari dosaggi e con un follow-up di almeno 1000 persone/anno, per un totale di 75.317 pazienti trattati, con un follow-up cumulativo di 309.506 persone/anno (tabella 1) (1,2,5-18).

I risultati hanno evidenziato che l’incremento degli enzimi epatici era correlato in maniera significativa all’assunzione di dosi elevate di statine.
Le incidenze di tale effetto sono state rispettivamente di 271 con dosi elevate, 195 con dosi intermedie e 114 con basse dosi di statine per 100.000 persone/anno per ogni 10% di riduzione dei livelli di LDL (p < 0,001 per tutte le coppie di confronto).
Anche l’incidenza della rabdomiolisi è risultata maggiore sebbene in modo non significativo in associazione a dosi elevate di statine.
Nell’analisi è stato inoltre osservato più di un caso di nuova diagnosi di cancro per 1000 pazienti con bassi livelli di LDL in seguito a trattamento con statine (inferiore a 100 mg/dl) rispetto a quelli con maggiori concentrazioni di colesterolo (100-150 mg/dl).
I ricercatori hanno dunque evidenziato una relazione significativamente inversa tra i più bassi livelli di LDL, ottenuti in seguito all’assunzione di statine, ed il rischio di una nuova diagnosi di cancro (inclusi genito-urinario, prostatico, respiratorio ed ematologico) (RR = 0,43; P = 0,009) mentre non è stata identificata alcuna relazione significativa tra riduzione relativa o assoluta dei livelli di LDL e incidenza del cancro (tabella 2).

Commento
Gli autori della revisione hanno commentato i risultati da essi ottenuti affermando che “alla luce dell’attuale opinione secondo cui più bassi sono i livelli di colesterolo minore è il rischio cardiovascolare, può essere prudente non utilizzare dosi di statine superiori a quelle necessarie per ottenere il target di colesterolo richiesto”. Inoltre, sempre secondo gli autori, è importante notare che “l’uso di statine non è da solo associato ad un incremento del rischio di cancro rispetto al placebo” anche se gli studi precedenti non hanno fornito una risposta alla domanda che essi si sono posti, ovvero: nei pazienti trattati con statine, qual è la relazione tra riduzione dei livelli di LDL ed incidenza del cancro?
La correlazione tra bassi livelli di colesterolo e aumento dell’incidenza del cancro è stata osservata in diversi studi epidemiologici (19) e sembra contrastare la riduzione della mortalità da cause cardiovascolari (20,21). Nella maggior parte di tali indagini, l’incidenza del cancro è risultata maggiore nei pazienti con livelli basali di colesterolo < 160 mg/dl rispetto a quelli con valori più elevati. Tuttavia, una revisione generale dei dati provenienti dagli studi epidemiologici ha concluso affermando che non è possibile effettuare un’interpretazione definitiva dell’associazione tra bassi livelli di colesterolo e cancro ma che questa può essere spiegata dalla presenza di fattori di confondimento (19). In tal senso, una possibile spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che la riduzione dei livelli di colesterolo rappresenta soltanto l’effetto della patologia e non la sua causa (19).

Commenti alla metanalisi
A causa di questa spinosa questione, la meta-analisi è stata sottoposta ad una ferrea critica evidenziata ad esempio dalle seguenti due lettere, fra quelle inviate all’editore.

De Maria e Ben-Yehuda (22) hanno sottolineato che sin dall’inizio di tale revisione, si evidenzia l’imperfezione dei dati riportati. Gli stessi autori risaltano una serie di limitazioni quali l’uso retrospettivo di dati riassuntivi, l’uso di dati provenienti da trial clinici piuttosto che dal “mondo reale” e la mancanza di una standardizzazione degli eventi avversi riportati nei singoli trial. Inoltre, ad eccezione dello studio PROSPER (Prospective Study of Pravastatin in the Elderly at Risk) nessun altro trial ha evidenziato un incremento dell’incidenza di cancro rispetto al placebo (14).
LaRosa (23) sottotinea il fatto che l’assenza di alcuna predominanza tra i vari tipi riportati di cancro lascia supporre che un’eccessiva riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo possa favorire lo sviluppo di un’ampia varietà di tumori. Tuttavia, sebbene ciò sia possibile, un meccanismo universale di alterazione cellulare, collegato al metabolismo del colesterolo, non è stato ancora descritto. Inoltre, poiché la durata media dei trial presi in considerazione in questa meta-analisi non supera i 5 anni, tale fenomeno appare troppo rapido per poter essere associato alla riduzione dei livelli di colesterolo.
Sulla base di quanto detto, è importante sottolineare che, se da una parte l’utilizzo cronico di statine in pazienti ad alto rischio cardiovascolare può ridurre in maniera significativa il rischio di patologie cardiovascolari, d’altro canto un aumento del rischio di morbilità o di mortalità oncologica non è stato ancora dimostrato e ciò rende ancora favorevole il rapporto benefico/rischio delle statine nei confronti di tale effetto.

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Fonte: http://www.farmacovigilanza.org/corsi/071031-02.asp

 

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